Otztaler 2013, un gadget curioso e “chi me lo fa fare”

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Che non sarebbe stata una Gran Fondo come le altre l’avrei dovuto capire fin da subito. Nel pacco gara dell’Oetztaler 2013, oltre alle consuete amenità, trovo un gadget piuttosto curioso: una fiaschetta di metallo per liquori. La sera prima della partenza la giro fra le mani, la guardo, la riguardo, la soppeso e mi chiedo: «E qui cosa dovrei metterci? Grappa? Forse un po’ di cordiale?». Mah… Decido di lasciarla sul comodino, ed è un errore perché gli austriaci saranno pure noiosi, ma in fatto di “prevenzione” la sanno evidentemente lunga. In effetti l’Oetztaler non è proprio come tutte le altre gran fondo: ci sono 238km e 5.500 metri di dislivello da affrontare, e poi c’è il fattore ”m”, chiamiamolo “meteo”, anche se si possono trovare altre parole adeguate con la stessa iniziale. Da quelle parti non devono avere un particolare feeling con le perturbazioni di fine agosto,o forse funziona sempre così anche nelle altre stagioni. L’anno scorso alla vigilia erano state preannunciate sciagure di ogni tipo, poi per fortuna la furia degli elementi si era scaricata la notte precedente e insieme agli altri 6 Cassinis eravamo arrivati tranquillamente (si fa per dire) al traguardo. Magari un po’ infreddoliti, ma sani e salvi. Quest’anno sembra la fotocopia e la sera prima (qui fanno pure un “briefing” per spiegare come ci si dovrà comportare) ovviamente non si parla d’altro che di previsioni, di guanti e mantelline. L’organizzazione manda un messaggio laconico e francamente un po’ comico: «Probabile pioggia, zero gradi a 3000 metri, il comitato prega di portare abbigliamento adatto».Grazie…

Alla fine, fra compagni che rimangono in albergo e quelli che proprio non sono venuti fin quassù, alla partenza siamo due Cassinis:oltre a me c’è Gigi, che insegue la sua grande impresa, fare l’en plein sulle gare del Prestigio, e pure in solitaria. Solo che non è proprio come l’anno scorso, perché stavolta la pioggia non accenna a smettere. Faccio colazione quando fuori ancora è buio e penso che stavolta la partenza bagnata non ce la toglie nessuno, ma non ho dubbi. Qualcuno me lo dovrebbe far venire Gigi,che mi chiama al telefono verso le 5 e 30 per sapere cosa ho deciso: «Vado in griglia? Che altro potrei fare?», rispondo. Sarò l’unico matto? No, non sono l’unico. In griglia ci sono parecchie altre persone bardate di tutto punto, qualcuna anche con gli ombrelli. Il mio amico e collega Riccardo Barlaam, che quest’anno ha deciso di raccontare per scritto e in video la sua scalata a «Tutte le salite del mondo», mi “intervista” e mi chiede se arriverò in fondo. « Certo, e con questo tempo qui devo fare pure in fretta», rispondo sotto la pioggia. Il bello è che penso davvero ciò che dico: non sulla fretta ovviamente, ma sul fatto che sono convinto di arrivare al traguardo. Nella mia incoscienza, più che del meteo sono preoccupato per la mia forma approssimativa,visto che per fortuna ho passato l’ultimo mese più a viaggiare in vacanza che a macinare km in salita.

Al via ci si rincuora pensando che ci sono almeno 10gradi, ma è una magra consolazione, perché si comincia subito con una discesa di quasi 30 km, non proprio il massimo in questi casi. L’emozione della partenza lascia subito il campo ad altri problemi più pratici:la strada è completamente allagata e dopo 5 km ho già mani e piedi zuppi. Ad Oetz ringrazio il cielo che inizia la salita, davvero un paradosso ma non credo di essere l’unico a farlo. Sul Kuhtai trovo subito Gigi, con il quale condivido i primi 10 km di questa salita irregolare, con rampe assassine e qualche tratto per respirare. Sta bene Gigi, lo vedo pedalare con leggerezza dove io invece arranco. Solo che è bagnato, mani e piedi, come me e come tutti del resto visto che la pioggia non accenna a smettere. Ci perdiamo di vista a un certo punto, perché io bisticcio un po’ troppo con una barretta (provate voi a prenderla e scartarla con i guantoni in goretex completamente fradici) e lui va decisamente più forte. Peccato…

In cima al Kuhtai, oltre i 2mila metri, la pioggia rafforza e fa freddo (il Garmin segna 4 gradi), ma al ristoro non c’è niente di caldo. Non ci penso due volte e riparto subito: inutile stare ad aspettare, bisogna perdere quota. La discesa è di quelle che non si augurerebbero neanche al peggior nemico. Ed è anche uno di quei tanti momenti in cui si insinua subdola la fatidica domanda « chi me lo fa fare?». Solo che stavolta la risposta retorica «ora che ho fatto la fatica di alzarmi presto…» che tanto piace a me e al Presidente non funziona. E non serve neppure l’idea di conquistare questa Oetztaler, dato che l’ho già fatto un anno fa. E allora, mentre mi aggrappo alle leve dei freni perché temo di non riuscire a ritrovarle più con le dita al limite del congelamento, inizio a pensare: penso ai compagni come Sandro che l’anno scorso sono arrivati fino al traguardo stringendo i denti poche settimane dopo un incontro ravvicinato con un Suv; penso a chi è meno fortunato, Michele soprattutto, e con tenacia sta combattendo per risalire su quella bici che io adesso rischio di odiare; penso all’esperienza in apparenza negativa vissuta qualche mese fa da Paola, il cui racconto mi ha davvero emozionato; pensi anche che non gliela vuoi dare vinta agli dei del pedale che oggi ti voltano le spalle. Si vede che tutto questo pensare riscalda evidentemente il cervello e trasmette calore anche al resto del corpo, perché il momento difficile passa e io resto aggrappato ai miei freni. Intorno a me devono svilupparsi drammi sportivi simili, perché vedo gente che indugia, qualcuno che si ferma, vedo ciclisti percorrere al rallentatore le gallerie pur di restare qualche secondo in più all’asciutto. Roba da pazzi. Nonostante questo mi sembra di scendere in assoluta sicurezza: non ho mai la sensazione di perdere la padronanza del mezzo. In prossimità di qualche falsopiano mi sorprendo a succhiare le dita dei guanti e a sputare l’acqua di cui sono impregnati. Follia? Lucidità? Non saprei. L’unico problema è che a forza di scendere mi trovo sempre a 1.500 metri d’altezza. Quando inizio a farmi qualche domanda scorgo il cartello Kematen e quello dell’autostrada per Innsbruck. La discesa è finita! E il Garmin ha preso troppa acqua e se ne è andato per i fatti suoi…

In questi momenti si ha la sensazione di trovarsi in mezzo ai sopravvissuti di una battaglia, ci si guarda, ci si conta. Ma ci si rallegra di averla scampata, e torna anche un po’ di morale. Raggiungo un ciclista che conosco, lo affianco e gli faccio di botto: «Tiritiritù?». Lui avrebbe dovuto rispondere «tarataratà!», ma scoppia semplicemente a ridere. Un pazzo anche lui, ma anche questo migliora il morale. Così come fa piacere il gruppetto di una ventina di ciclisti che aggancio per arrivare a Innsbruck. In città c’è di nuovo gente che applaude sotto gli ombrelli: altra bella spinta ad andare avanti. Ricomincia la salita verso il Brennero, ottimo! Sulle prime rampe riesco a stare aggrappato con i denti al gruppetto ed è un bene, perché la salita è in realtà un falsopiano lungo 36 km e stare a ruota è fondamentale. Dopo qualche chilometro smette finalmente di piovere: sono stato quasi 4 ore sotto le gocce, ma mi viene da dire che è «acqua passata». Al ristoro del Brennero ci arrivo con oltre un’ora di anticipo rispetto al “cancello”: e penso che ormai è fatta, anche se il bello deve ancora venire.

Rientrando in Italia spunta fuori pure il sole, approfitto del pit-stop per mettere ad asciugare la giacca in goretex e i guanti, che fumano appoggiati alla bici. Riparto ristorato e rinfrancato, anche perché la discesa verso Vipiteno è finalmente asciutta. Dopo inizia il Giovo, una salita di 15 km che mi piace moltissimo perché è la più regolare che io abbia mai visto. In confronto il Bisbino pare un ottovolante… Qui Pantani si fece vedere per la prima volta staccando tutti nel giro del 1994, qualche giorno prima di mettere in ginocchio Indurain sul Mortirolo. Su questi tornanti l’anno scorso avevo “attaccato” seminando gente insieme a Giovanni Revoltella, stavolta le forze sono quelle che sono e c’è solo da difendersi, da gestire le risorse residue in modo da non farsi venire i crampi. E da ammirare il panorama, perché col sole finalmente fuori lo scenario è splendido.

La salita scorre via, ma non mi illudo, perché manca ancora il Rombo. I 29 km di questo Moloch sono di fronte a me e io comincio ad affrontarli con pazienza da formichina: mettendo dietro le spalle metro dopo metro. Improvvisamente fa pure caldo, il Garmin segna 33 gradi. Non so quanto sia affidabile, ma devo fare una sosta per spogliarmi quasi completamente. Il Rombo parte tranquillo, poi dopo 6/7 km diventa duro. Lo conosco bene e so che a un certo punto spiana, solo che questo punto non arriva mai… Gli altri mi superano, ma spesso si fermano ai vari ristori o a prendere acqua. Io invece procedo dritto come un fuso, fermarsi non servirebbe a niente. E poi magari non riesco a ripartire. Così succede che qualcuno mi ribecca anche 3 o 4 volte e mi guarda incuriosito. Arriva finalmente il falsopiano, ma dura poco: di fronte a me ci sono gli ultimi 8km con ben 700 metri di dislivello. La strada la vedo apparire mentre esco da una galleria, lì davanti che sale a zigzag fino al culmine: è un colpo duro. Procedo sempre più piano, però non ho crampi e questo mi rincuora. E mi rincuora anche lo scenario meraviglioso: mai visto prima il Rombo con il sole, se penso a qualche ora prima! La salita è interminabile e devo andare davvero piano perché qualcuno da dietro mi incoraggia: oggi evidentemente quello cotto sono io. La galleria a quasi 2.500 metri d’altezza arriva come una liberazione e io la festeggio cantando con l’ultimo fiato in gola una canzoncina a me cara, che l’anno scorso aveva portato bene.

Sul versante austriaco torna la nebbia: ci fossero anche gli spaghetti, la pizza e il mandolino saremmo al completo con i luoghi comuni sull’Italia. Si preannuncia quindi un’altra discesa fredda, ma asciutta. Ormai è fatta, tranne per quell’impennata di due km della Mautstelle che mi fa penare. Salendo sul Giovo e sul Rombo ho avuto molto tempo a disposizione per pensare a ciò che mi spinge verso queste follie e soprattutto a immaginare come sarà l’arrivo: a 2 km dal traguardo mi toglierò il goretex e l’antivento per presentarmi con la maglia Cassinis nuova. Cosa vuoi che me ne importi ormai di perdere un minuto in più? Immagino l’ultimo chilometro come una meritata passerella: la gente che mi applaude,  mia moglie che mi aspetta e mi festeggia ai -300 metri sulla destra, proprio dove l’anno scorso, l’ultima curva a gomito, il ponte sul fiume e il traguardo da tagliare a braccia alzate in solitaria. Come un vincitore, perché oggi mi sento così, con lo speaker che urla il mio nome e poi Cassinis, Milano, Italien. Poi l’abbraccio con Gigi, sempre che non se ne sia già filato sotto la doccia dopo aver compiuto la sua impresa,e il ritiro della maglia riservata solo ai “finisher”. Oggi se possibile ancora più bella e profumata del solito. Il bello è che avviene tutto come lo avevo immaginato, tranne che per Gigi. Qualche ora dopo, di fronte a una bella birra, mi dirà che nella famigerata discesa del Kuhtai si è infilato tutto bagnato in un rifugio pieno di altri ciclisti, ha sentito mormorare parole come «Timmelsjoch» e «Schnee», ha pensato che nevicasse sul Rombo e ha girato la bici. Non mi sento proprio di dargli torto, ma mi piace pensare che se fossimo rimasti insieme avrebbe probabilmente preso un’altra decisione.

Maximilian

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